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BERLINALE 2019 Panorama

Recensione: A Dog Called Money

di 

- BERLINO 2019: Il documentario di Seamus Murphy su PJ Harvey è girato in modo sontuoso, ma fatica a scegliere un percorso narrativo preciso e manca di coerenza

Recensione: A Dog Called Money
PJ Harvey in A Dog Called Money

Ieri al Kino International si è tenuta l'anteprima mondiale del documentario irlandese-britannico intitolato A Dog Called Money [+leggi anche:
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scheda film
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, diretto dal regista e fotografo Seamus Murphy e presentato nella sezione Panorama della 69ma edizione della Berlinale. Il film di debutto di Murphy si apre con una scena in cui un bambino si affaccia al finestrino della macchina, sulla quale stanno viaggiando la cantautrice britannica PJ Harvey e il regista. È una scena bellissima che suscita la curiosità dello spettatore – la prima volta di una lunga serie. Il documentario mostra la ricerca dell’ispirazione di PJ Harvey e le prove del suo album The Hope Six Demolition Project. Murphy accompagna l’artista in tre luoghi principali: a Kabul, capitale dell’Afghanistan; negli impervi paesaggi del Kosovo e nel Sud-Est di Washington DC.

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A Londra, PJ Harvey decide di lavorare al suo album in uno studio particolare, che funge anche da peep show permettendo così al pubblico di godere delle sue performance e del suo intero processo creativo. Lo spettatore vedrà la musicista viaggiare continuamente, conoscere persone e luoghi al fine di trarre un po’ di ispirazione; ognuno di questi momenti rappresenta una potenziale opportunità per scrivere una nuova canzone, trovare un titolo adatto o elaborare un ritmo incalzante. In questi casi, le peregrinazioni e le impressioni della cantautrice sono spesso collegate ai suoi pensieri, che vengono esternati dalla voce fuori campo. Tuttavia, in più di qualche occasione le parole sono ripetitive e descrivono banalmente ciò che sta accadendo sul grande schermo. 

Fin dall’inizio il documentario manca di coerenza e coesione: lo sguardo del regista cambia continuamente direzione e non si sofferma mai abbastanza profondamente sui personaggi o sui luoghi visitati dall’artista. L’interminabile sequenza di belle immagini, quindi, sono abbastanza piacevoli da guardare, ma non accarezzano le corde del cuore dello spettatore. Nella visione d’insieme, chiunque non conoscesse la cantautrice o i suoi lavori musicali, avrebbe difficoltà a relazionarsi al film. Tutte le riprese orbitano attorno a PJ Harvey, alla band e all’album; i suoi viaggi sembrano solo un mezzo per raggiungere gli scopi artistici e di conseguenza il film non riesce a toccare temi più universali che avrebbero potuto aumentare il suo potenziale, al di là dei fan di PJ. 

Inoltre, il documentario pecca di qualsiasi forma di conflitto in quanto non vediamo mai la protagonista principale avere alcun tipo di crisi o autentico dubbio nel corso del processo creativo. Probabilmente ne avrebbe potuto beneficiare se ci fosse stata un’analisi più dettagliata della vita di PJ fuori dallo studio di registrazione; in questo modo il pubblico avrebbe percepito un quadro più generale e sincero della protagonista.

Una nota decisamente più positiva è il fatto che la fotografia di Murphy sia eccellente e che alcune delle canzoni di PJ Harvey abbiano un notevole impatto. In generale, il film ha un grande potenziale e un numero significativo di riprese discrete, ma c’era bisogno di aggiungere un lavoro più intenso che mirasse sia a garantire una struttura narrativa più coerente, sia uno sguardo più maturo nella vita e nella creazione musicale dell’artista (accennata solo dalle conversazioni con la band e dai commenti fuori campo e non).

A Dog Called Money è prodotto da Pulse Films (Regno Unito), JW Films (Regno Unito) e Blinder Films (Irlanda) in collaborazione con Somerset House (Regno Unito). Le vendite internazionali del film sono affidate a Autlook Filmsales (Austria).

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(Tradotto dall'inglese da Laura Comand)

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