email print share on Facebook share on Twitter share on LinkedIn share on reddit pin on Pinterest

VENEZIA 2021 Concorso

Gabriele Mainetti • Regista di Freaks Out

Freaks Out è figlio del periodo storico trumpiano”

di 

- VENEZIA 2021: Il regista romano ci parla della sua opera seconda, tra scelte di casting, lavoro musicale e le sfide produttive di un progetto colossale e dalla lunga gestazione

Gabriele Mainetti • Regista di Freaks Out
(© La Biennale di Venezia - Foto ASAC/Giorgio Zucchiatti)

Cineuropa ha incontrato nel giardino di Villa Nidiolo Gabriele Mainetti, regista dell’attesissimo Freaks Out [+leggi anche:
recensione
trailer
intervista: Gabriele Mainetti
scheda film
]
, presentato in concorso alla Mostra di Venezia di quest’anno. Con Mainetti, abbiamo parlato delle sue scelte di casting, dei temi principali del film, del lungo processo produttivo e del suo lavoro musicale.

Cineuropa: Perché è importante raccontare la storia di Freaks Out oggi?
Gabriele Mainetti: Il mio intento è quello di parlare del contemporaneo attraverso una storia che possa divertirti. È fondamentale ricordare al mondo intero quanto la diversità sia al centro del nostro percorso umano. Freaks Out tenta di mettere al centro il diverso, il freak, e lo riconosce nella protagonista, l’unica che apparentemente non sembra una freak. Per me, è come se tutti fossimo dei freak, tutti abbiamo una parte più oscura, tutti siamo diversi. La nostra identità ci rende unici. Nel tentativo di inserisci in un contesto sociale più “normale”, spesso neghiamo la nostra identità e nascono irrigidimenti terribili. Freaks Out è figlio del periodo storico trumpiano, l’abbiamo scritto nel periodo del “white power”. Nel frattempo, la nostra politica italiana continua a cercare di annientare un’idea di eterogeneità, come se ci fosse qualcosa di giusto a priori, qualcuno che merita più degli altri. Attraverso il cinema, volevamo perciò raccontare il nostro essere freak e il rispetto che bisogna avere delle identità di tutti.

(L'articolo continua qui sotto - Inf. pubblicitaria)

Franz Rogowski qui intepreta il villain del film. Cosa l’ha spinta a sceglierlo per la parte?
Ho una storia divertente che nessuno sa. All’inizio mi era stato presentato un attore tedesco molto importante e non capivo perché non potessi provinarlo. Ho avuto a che fare con questo attore, chiedendomi se fosse giusto o meno per la parte. Poi, mi sono ribellato a questa proposta e sono andato in Germania a fare dei provini. Il primo è stato quello di Franz Rogowski e mi sono detto: “Ora mi tocca fare tutti gli altri e il mio protagonista l’ho già trovato!” Ho scelto lui perché ci siamo trovati emotivamente e fisicamente... Sono un regista cinematografico e non posso non badare alla forma... La forma per me deve trovare un suo equilibrio col contenuto. Franz riusciva a condensare, in qualche modo, questo compito così difficile. È un attore strepitoso e mi sembrava giusto raccontare un tedesco come un freak che aspirava, invano, a diventare qualcos’altro.

Per gli altri interpreti principali come ha proceduto?
Claudio Santamaria è un antico collaboratore. Nonostante sia nascosto da tantissimi peli, ha una grande presenza scenica. Al di là della regalità che ho voluto dargli e non voler banalizzare l’uomo peloso e forte, [..] Claudio ha quel fare tronfio e bonario con il quale ha potuto raccontarci un Fulvio meraviglioso. Pietro Castellitto è stata una scoperta sorprendente. Inizialmente, Cencio aveva 16-17 anni, volevo una storia d’amore tra adolescenti. Poi ho conosciuto lui e ho cambiato un po’ il personaggio, ma devo dire che da regista e sceneggiatore ha contribuito tantissimo a dargli vita. Con Max Mazzotta, il “Gobbo”, ci conosciamo da vent’anni e ammiro il suo teatro neo-streheleriano. Aurora Giovinazzo è stata forse la scelta più difficile. Ho visto tantissime bambine e ragazze e ho faticato a trovare quello che racconta anche un po’ di me. Credo che Franz e Matilde siano anche due parti della mia personalità. Matilde, in particolare, ha una corazza dura da scalfire, ma anche una grandissima fragilità. Non riuscivo a trovare quella giusta. O erano “piagnone” o durissime. Aurora è stata una combattente, un soldato, un’attrice di grandissimo talento capace di reggere un impegno produttivo di 26 settimane. Giancarlo Martini, invece, è stato una sorpresa del mio casting director Francesco Vedovati. Mi ha incantato con la sua umanità, letteralmente. È come se avesse portato con il suo personaggio un’iperbole del suo amore che prova per il mondo. Giorgio Tirabassi lo amo da sempre, da L’odore della notte di Claudio Caligari a L’ultimo capodanno di Marco Risi. Ho sempre amato la sua romanità e aveva l'età giusta per il personaggio.

Produttivamente, è stato estremamente complicato...
Sì, però ad un certo punto quello che conta è il risultato. È complicato in Italia fare questi film, è vero. Te lo dico con presunzione. [Ci siamo riusciti] perché io sono il produttore, insieme ad Occhipinti, altrimenti non si sarebbe fatto. Sono io che ho avuto la produzione esecutiva in mano, ho portato avanti il set con le mie persone e ho detto: “Si va avanti!”, nonostante i vari litigi e tutto il resto. Alla fine, siamo riusciti a fare il film che volevamo.

In fase di scrittura, qual è stata la sfida maggiore?
Dico sempre che è già stato fatto tutto. La difficoltà principale affrontata con Nicola Guaglianone era dargli una sua originalità, una sua identità. [..] Poter creare un coinvolgimento nello spettatore che lo porti attraverso un viaggio. Quando crei una polifonia di generi se non “entri” nel film, senti soltanto caos e rischi di non divertirti. Questa è stata la parte più difficile: cercare un collante che armonizzi il tutto.

Quali riferimenti musicali vi hanno guidato nel comporre la musica?
Si guarda ai migliori, quindi Ennio Morricone, John Williams, Nino Rota, Hans Zimmer, Johann Johannsson, Gerry Goldsmith ed il primissimo Alfred Newman e qui mi fermo. Io vedo questi grandi musicisti e tutta una serie di diramazioni e percorsi che derivano da questi maestri. Abbiamo [Mainetti e l’altro compositore, Michele Braga] cercato di capire come questi autori hanno commentato musicalmente questo tipo di film. Dopo abbiamo fatto dei salti all’indietro e abbiamo rivisitato la grande musica che ha ispirato questi registi: Korngold, Šostakovič, Stravinskij… Abbiamo cercato di restituire, con i nostri limiti creativi, un’identità che fosse solida e funzionale. C’è una combinazione di strumenti più poveri – la mandola, il mandoloncello, il mandolino, la balalaika – che dialogano con un organico musicale più elevato, quello dell’Orchestra di Praga – gli archi, i legni e gli ottoni.

(L'articolo continua qui sotto - Inf. pubblicitaria)

Ti è piaciuto questo articolo? Iscriviti alla nostra newsletter per ricevere altri articoli direttamente nella tua casella di posta.

Leggi anche

Privacy Policy