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BIF&ST 2019

Ali Vatansever • Regista di Saf

“Come rimanere umani quando sei circondato da mostri?”

di 

- Il regista turco Ali Vatansever ci parla del suo secondo film, Saf, proiettato al Bif&st di Bari nella selezione Panorama internazionale, incentrato su un delicato dilemma morale

Ali Vatansever • Regista di Saf

Urbanizzazione selvaggia, disoccupazione, rifugiati siriani, relazioni familiari: sono vari i temi che il turco Ali Vatansever tratta in Saf [+leggi anche:
recensione
trailer
intervista: Ali Vatansever
scheda film
]
, sua opera seconda dopo il pluripremiato One Day or Another, mettendo in luce la guerra tra poveri in atto nell’area di Fikirtepe, nella parte asiatica di Istanbul, dove le comunità più disagiate sono spazzate via e un uomo semplice è costretto a scegliere tra il bene e il male. Dopo la prima mondiale a Toronto, e pochi giorni dopo aver vinto i premi al miglior regista e al miglior attore all’Ankara Film Festival, il film è stato proiettato al Bif&st di Bari, dove ne abbiamo parlato con lui.

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Cineuropa: Già a partire dal suo titolo, Saf è un film con molte sfaccettature.
Ali Vatansever:
Il termine turco “saf” è intraducibile in altre lingue: può significare “naif, ingenuo” oppure “un po’ folle”, ma può anche significare “prendere una posizione”, ed è questa la questione al centro del mio film. Qui i protagonisti sono spinti a prendere una posizione in ogni situazione che affrontano, e queste posizioni porteranno l’uno alla rovina e l’altra a scoprire se stessa. La domanda di base era: come rimanere umani in una regione così difficile, quando sei circondato da mostri? Come fai a restare puro quando il mondo ti costringe a stare da una parte o dall’altra? 

Come reagisce a tutto ciò il protagonista del film?
Kamil deve decidere se accettare un lavoro pagato poco, se vendere la sua casa, se stare con i suoi vicini o mettersi contro di loro. E sotto tutte queste pressioni, scopre il male dentro di sé. È così che siamo costretti a vivere oggi: ci si aspetta che tutti abbiano una posizione chiara su ogni specifico problema. Questa visione del mondo in bianco o nero è preoccupante per me, e cerco di esplorarla attraverso persone vere con problemi veri. 

Il film è ambientato nella parte asiatica di Istanbul, nel quartiere di Fikirtepe. Che tipo di conflitti ci sono in questa zona?
Fikirtepe è un’area di Istanbul con più di 10mila persone, nata come baraccopoli tra gli anni 1960 e 70. Ora è diventata una zona molto centrale, anche costosa, e la gente è spinta ad andarsene, per fare posto ai grattacieli costruiti dalle società dello Stato. Migliaia di persone sono già state trasferite, migliaia di case sono state demolite, sono rimasti solo due vecchi isolati. La particolarità è che i rifugiati siriani si sono messi a vivere in questi edifici abbandonati, accettando lavori pagati poco, senza alcun tipo di assicurazione, e questo ha creato un ulteriore livello di scontro. Una comunità svantaggiata se ne va e un’altra comunità svantaggiata arriva. Condividono lo stesso destino, ma non si alleano. Quindi partendo dalla trasformazione del territorio, il film passa a tracciare un quadro più ampio, di relazioni umane, trasferimenti, immigrazione, lavoro. Ci sono voluti quattro anni per scrivere il film, sono stato testimone di tutti questi cambiamenti radicali. Non è solo la geografia che cambia, ma anche la testa della gente. Volevo evidenziare come la psicologia delle persone venisse influenzata dall’ambiente.

Il film è diviso in due parti ben distinte: nella prima seguiamo Kamil, nella seconda sua moglie Remziye.
Volevo che il pubblico esplorasse due punti di vista differenti. All’inizio vediamo il quartiere e le persone attraverso la prospettiva di Kamil; lui e sua moglie sono in disaccordo su diverse questioni. Nella seconda parte, il punto di vista diventa quello di Remziye, così il pubblico capisce tutti i pregiudizi che si è costruito nella prima ora. Guardando la stessa regione e la stessa gente dalla prospettiva di lei, realizzi che non c’è una sola verità, come siamo portati a credere. Quando esci dalla tua piccola strada e incontri altre persone, vedi che ci sono milioni di colori, di sfumature. Kamil ha buone intenzioni, per sopravvivere cerca di fare la cosa giusta, ma nega anche il male che c’è dentro di lui, sopprime i suoi mostri, i suoi desideri, ma a un certo punto il mostro prende il sopravvento. Remziye, invece, non rinnega i suoi desideri, ha i suoi motivi dentro di sé, li affronta e questo la tiene a galla.

Stilisticamente, come ha scelto di restituire queste prospettive?
Ci siamo chiesti come portare il pubblico in questa regione, come creare questa esperienza. La mia scelta è stata di non tagliare le scene. Specialmente con Kamil, viaggiamo nella spazio con lui, sperimentiamo quello che sperimenta lui, non volevo sottolineare nulla in particolare, non ci sono primi piani che catturano dettagli. Non intendevo focalizzarmi sulla distruzione di questa area, per chi ci vive è tutto così normale. Volevo poi passare fluidamente tra gli interni e gli esterni: non c’è molta differenza tra spazi privati e pubblici, lì è così, aprono la porta di casa ed entrano nella tua vita. Volevo che il pubblico sperimentasse anche questo.

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