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Peter Monsaert • Regista

"La famiglia è l’unica cosa alla quale non si può sfuggire"

di 

- Cineuropa ha incontrato il regista belga Peter Monsaert per parlare del suo secondo lungometraggio, Le Ciel flamand

Peter Monsaert  • Regista

Peter Monsaert si è fatto conoscere al cinema con il suo primo lungometraggio, Offline [+leggi anche:
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, Gran Premio del lungometraggio e Premio dell’interpretazione maschile e femminile ad Amiens. La sua carriera evolve tra teatro, cinema, video installazioni e arte. Le Ciel flamand [+leggi anche:
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intervista: Peter Monsaert
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, suo secondo lungometraggio, esce questa settimana in Belgio (Lumière) e uscirà in Francia a gennaio (Urban Distribution International) e nei Paesi Bassi a febbraio (Lumière).

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Cineuropa: Da dove viene l’idea del film?
Peter Monsaert:
Quando sono nate le mie figlie, e le ho viste per la prima volta, sono crollato. Ho pianto come non piangevo da dieci anni. Ho sentito l’amore, ma anche la paura e la vulnerabilità, emozioni che non avevo mai provato. Ho deciso di farne un film. Volevo parlare di famiglia e volevo lavorare sul senso di colpa: è in noi o ce lo impongono dall’esterno? L’ambiente della prostituzione mi dava l’occasione di trattare questa problematica.

Questa madre è doppiamente colpevole e vulnerabile, in quanto madre e in quanto prostituta?
Esatto. E’ socialmente colpevole. Ma questa società è ipocrita. La maggior parte della gente tollera la prostituzione, è contenta che ci siano le prostitute, ma quando succede qualcosa tutti dicono "è normale, è una puttana". Il dramma libera il discorso; a scuola trattano la madre di Eline da puttana, il poliziotto incaricato dell’indagine fa presto a imputare lo stile di vita della madre… Volevo normalizzare la prostituzione. Le ragazze che ho incontrato quando ho fatto le ricerche per il film insistevano sul fatto che loro non sono solo una professione. Sono donne, madri, figlie, sorelle, non solo prostitute. E’ per questo che ho scelto di mostrare la cucina o il bar, e non le stanze.

La questione della famiglia è al centro del film.
E’ andata da sé, non era una scelta consapevole. E’ un film sulle donne e sulla famiglia. Anche il personaggio dello zio Dirk, all’inizio, è ai margini del film e mano a mano trova il suo posto, ritrovandosi al centro della famiglia. La tematica è simile a quella del mio primo film Offline. La cosa mi spaventava all’inizio, ho pensato fossi bloccato su un soggetto, ma poi ho realizzato che è normale. Per me la famiglia è l’unica cosa alla quale non si può sfuggire.

Il film evolve in pieno chiaroscuro, esteticamente e moralmente.
Amo molto i film che pongono domande e lasciano allo spettatore la risposta. E’ ciò che rimane in testa alla gente uscendo dal film: che cosa avrei fatto al suo posto? Un film è una conversazione tra il regista e il pubblico, si fa il film insieme.

Lo scontro tra il mondo degli adulti e quello dei bambini si rivela brutale.
Il modo in cui filmiamo Eline è diverso, abbiamo cercato di avvicinarci a lei con primi piani, quasi tattili, di essere più poetici che prosaici con il suo personaggio. Lei ha un approccio molto aperto e uno sguardo molto ingenuo.

Quindi questa distanza ha una funzione drammatica?
Sì, è anche per questo che ho scelto di lavorare in due lingue nel film. Ho lavorato al confine francese, dove il commercio dei corpi è un business fiorente. Eline non capisce emotivamente e letteralmente ciò che le dice il suo aggressore. Per lei, fare le coccole è normale. Non capisce neanche il linguaggio del corpo, cosa che scatena il dramma. 

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(Tradotto dal francese)

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