email print share on Facebook share on Twitter share on LinkedIn share on reddit pin on Pinterest

Laurent Larivière • Regista

"Fino a dove si può arrivare per avere un posto nella società?"

di 

- Incontro in occasione del Festival di Cannes con il regista di Je suis un soldat, un’opera prima svelata al Certain Regard.

Laurent Larivière  • Regista

Il primo lungometraggio di Laurent Larivière, Je suis un soldat [+leggi anche:
recensione
trailer
intervista: Laurent Larivière
scheda film
]
, presentato all’ultimo Festival di Cannes nella selezione Un Certain Regard, è una coproduzione franco-belga in cui Louise Bourgoin incarna una giovane donna disoccupata che si batte per riavere tutto ciò che ha perso (fino a entrare nel commercio illegale di cani di suo zio, interpretato da Jean-Hugues Anglade) e anche la stima per se stessa.

(L'articolo continua qui sotto - Inf. pubblicitaria)

Cineuropa: Il personaggio centrale del film, Sandrine, vive nella vergogna, una vergogna che si riflette nelle sue attività clandestine e nel modo in cui si nasconde, come per dimenticare se stessa…
Laurent Larivière: Il punto di partenza del film è in effetti la vergogna sociale che provi quando hai 30 anni e devi tornare a vivere da tua madre, dopo essere stata l’unica della famiglia ad aver tentato la fortuna a Parigi, e aver fallito. Volevo innanzitutto parlare di questa vergogna, del modo in cui si viene guardati quando ci si trova in questa situazione, e poi presto è venuta l’idea di mettere il personaggio a confronto con un lavoro molto aspro, duro, rumoroso, sporco, molto lontano dai suoi sogni, perché Sandrine è una persona che non sa individuare bene i propri desideri, che risponde prima di tutto ai desideri degli altri: di sua madre che ha bisogno di soldi, di suo zio che la trascina in attività sordide e illegali… Non riesce più a dire "io", ma tutte queste dure esperienze accumulate la porteranno a un punto di saturazione che le permetterà di liberarsi, di rendersi conto che il riconoscimento di cui ha bisogno non può venire dagli altri, che deve venire da se stessa. Per me, questo film è quindi la storia di una liberazione, di un personaggio che accede a un nuovo livello di coscienza della propria identità e impara a dire "io".

Fino al momento della sua esplosione catartica, il film è portatore di una grande violenza. La ritroviamo nella scena in cui il cognato distrugge la sua casa in costruzione, o davanti all’agente immobiliare, all’inizio, quando Sandrine lascia il suo appartamento...
L'idea di habitat, di rifugio, ma anche di luogo in generale, è centrale nel film. La prima scena, con quell’agente odioso, rimanda alla problematica della sottomissione, della difficoltà di ribellarsi senza rimetterci, ma la grande questione morale che il film esplora è: fino a dove si può arrivare per avere un posto nella società? Quando suo zio la trascina nel traffico di cuccioli, Sandrine si ritrova con più soldi che mai, quindi all’inizio sembra aggiustare le cose – perché è piacevole avere un po’ di soldi, potersi comprare le cose e far parte, semplicemente, della società del consumo in cui tutti viviamo. Aggiusta le cose perché le dà anche un ruolo nella società, qualcosa da fare, anche a costo di essere coinvolta in qualcosa di illegale e di estremamente crudele.

Sandrine ha con suo zio un rapporto particolare, pieno di complicità ma anche di tensione.
Volevo che si sentisse nel suo percorso una minaccia costante. Quando torna nella sua famiglia, che dovrebbe essere un’oasi di pace, volevo che quel rifugio fosse, paradossalmente, il luogo di una distruzione, perché non è nella sua famiglia che deve trovare le soluzioni che cerca, ma in se stessa. E’ per questo che si sente una tensione fin dall’inizio. Anche nella casa dove è cresciuta e dove torna timidamente, non c’è posto per lei e si ritrova a dormire sul divano. Fin dall’inizio, tutte le situazioni sono scomode, come se ci fosse un’ostilità di fondo del mondo nei suoi riguardi.

Il suo film ci fa anche conoscere l’universo allucinante del traffico di animali, dei cuccioli venduti al chilo...
Al di là del lato sporco e sordido di questo lavoro, che serviva al mio proposito, c’è anche una dimensione spettacolare, quindi mi piace l’idea che il film possa essere visto al primo livello, come un thriller, con suspense. L'idea è che funzioni come un multistrato, con diverse letture. Si può avere del film una lettura sociale, si può vedere in questo traffico un’allegoria della crudeltà contemporanea – penso che lo spettatore possa proiettarvi tantissime situazioni, violenze che subiamo tutti nella vita quotidiana.

In questo racconto generalmente cupo, ci sono momenti più leggeri: il colloquio di lavoro è molto divertente, e poi c’è la scena molto carina che dà il nome al film, quella in cui i personaggi cantano la canzone di Joh
ny Hallyday...
Mi sembrava molto importante trovare un equilibrio. E’ anche per questo che ho scelto Louise Bourgoin, che è un’attrice molto luminosa, che dà tanta vita al film. L'idea era alternare scene dure a scene più leggere, anche divertenti (alle prime proiezioni, ero felicissimo di sentire le risate in sala). Non c’è il piangersi addosso in questa famiglia. Ci sono difficoltà, i soldi mancano, ma non ci si lamenta, si è dentro la vita, e c’è molta solidarietà e amore. Paradossalmente, questo amore non impedisce gli eccessi di violenza, l’umiliazione e le tensioni, ma è un tutto come nella vita. Ho provato a dipingere un quadro che rendesse conto della complessità delle relazioni umane. 

(L'articolo continua qui sotto - Inf. pubblicitaria)

(Tradotto dal francese)

Ti è piaciuto questo articolo? Iscriviti alla nostra newsletter per ricevere altri articoli direttamente nella tua casella di posta.

Leggi anche

Privacy Policy