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Malgorzata Szumowska • Regista

“Un film sull’amore”

di 

- La polacca Malgorzata Szumowska parla di In the Name of, un film su un prete omosessuale, presentato in concorso a Berlino.

La cineasta polacca ha incontrato la stampa internazionale dopo la proiezione in concorso ufficiale alla 63ma Berlinale di In the Name of [+leggi anche:
recensione
trailer
intervista: Malgorzata Szumowska
scheda film
]
, un film controverso sulla Chiesa cattolica e l’omosessualità. Alcuni estratti.

Quali erano le sue intenzioni nell’affrontare un soggetto così controverso?
Malgorzata Szumowska: Volevo innanzitutto fare un film sull’amore. Volevo comprendere la personalità del prete, i suoi desideri e i suoi pensieri, non giudicarli. Pertanto, era fondamentale distinguere l’omosessualità dalla pedofilia, di cui il film non parla. Sono semplicemente parte di un approccio individuale. Non penso mai alle reazioni possibili durante il processo creativo: non faccio calcoli e a volte mi sorprendo della reazione degli spettatori. Ad ogni modo, non avevo alcuna intenzione politica e non ho fatto questo film né per una sponda, né per l’altra.

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Si sarà immaginata, però, che trattare il tema dell’omosessualità nella Chiesa cattolica non sarebbe passato inosservato.
E’ chiaro che l’ala conservatrice della società si sentirà interpellata dal film e che probabilmente non lo amerà. Penso che questo tema sia una questione di potere e una lunga tradizione che non sta più al passo con la società moderna. Ma è una questione difficile che provoca talvolta reazioni intolleranti. Forse i preti, anche se non hanno il diritto di dirlo, si ritroveranno nel film. In ogni caso, è necessario avere questo tipo di voce in Polonia, anche se temo un po’ che mi si voglia identificare per forza con un’ideologia e che incollino al film l’etichetta "gay movie con prete". Mi mette sempre a disagio quando la gente, come spesso accade in Polonia, giudica la realtà o bianca o nera, mentre il più delle volte è a metà, è grigia. Detto questo, si può dire che è un "gay movie" (ride).

Come ha trovato tutti questi giovani così bravi nei ruoli secondari?
Li abbiamo trovati nei dintorni del luogo di riprese, in piccoli villaggi. All’inizio, è stato difficile per me perché erano piuttosto aggressivi, bestemmiavano molto e non si fidavano di me. Ho passato del tempo con loro, osservandoli prima di sceglierli. E una settimana dopo l’inizio delle riprese, erano diventati dolci come agnelli.

Perché questo finale duro?
Molti articoli ci hanno influenzato: succede a volte che dei preti facciano entrare i loro amanti in seminario. E’ drammatico in un certo senso, perché spesso sono dei giovani che hanno poche prospettive. Ora, quando sei prete, in Polonia, hai denaro, un’educazione e una posizione sociale. Il film non poteva avere un happy end. E’ un finale un po’ ironico, ma realista e un po’ inquietante.

E’ stato difficile finanziare il film? No, grazie al Polish Film Institute che non teme soggetti controversi. Ma c’è stato qualcun altro che ha avuto paura delle polemiche. La questione di fondo del film era: "Abbiamo o no il coraggio di toccare temi politici?". Comunque, era un piccolo budget perché non avevamo bisogno di molto. E la produzione ci ha lasciato tutto il tempo necessario.

Perché il cinema est-europeo sembra in piena mutazione?
Noi abbiamo una storia completamente diversa, speciale. Tutto è ancora fresco, in un certo senso: il capitalismo, la democrazia… La Polonia è dinamica, molte cose si muovono, i dibattiti sono animati e discutiamo per sapere chi siamo. E’ tutto molto creativo, anche se non sempre è piacevole. E’ sicuramente per questo che i film est-europei attuali hanno un colore particolare.

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(Tradotto dal francese)

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